Spunti conclusivi
Ciò che verrà: le due facce della crisi
In conclusione di questo rapporto non possiamo sottrarci ad esporre alcune considerazioni su ciò che ad oggi è possibile ipotizzare accadrà nel mercato del lavoro milanese nei prossimi mesi. Per farlo però è necessario volgere nuovamente un veloce sguardo al recente passato per poter meglio contestualizzare le vicende congiunturali presentate nel volume e di conseguenza avventuraci nel trarre alcune tracce riguardo a ciò che potrà essere. Un esercizio che non ambisce ad essere uno strumento di orientamento di policy, piuttosto di riflessione, quasi di considerazioni, ad alta voce, che nascono dalla lettura dei dati esposti.
Le informazioni di contesto, fornite dagli uffici studi istituzionali, ci hanno restituito l’immagine di come l’area metropolitana di Milano si sia affacciata alla crisi pandemica. Dal 2014 vi è stata una costante crescita del tasso di occupazione (si confronti Figura 1), sostenuta dai positivi dati economici generati sia dall’industria sia dai servizi. Questo trend ha assunto dimensioni interessanti, sia per quanto riguarda le dinamiche occupazionali sia per quelle economiche, grazie alla legacy di EXPO 2015. La serie positiva della variazione del “valore aggiunto”, elaborata da Prometeia sulla base dei dati diffusi dal Fondo Monetario Internazionale, è proseguita fino alle soglie del 2020: +0,7% nel 2018 rispetto al 2017, e +0,9% nel 2019 rispetto all’anno precedente. Le dinamiche congiunturali locali hanno però scontato la lentezza della crescita complessiva del PIL italiano che fino al 2018 è rimasto su valori inferiori a quelli antecedenti la crisi del 2008. Nel secondo semestre 2019, la produzione industriale italiana è addirittura virata verso valori negativi: il dato dell'ultimo mese dell'anno calcolato dall’Istat riporta un calo dell'-1,3% in media d'anno rispetto al 2018, trascinando con sé anche l’area metropolitana milanese.
Gran parte degli analisti economici attribuiscono al modesto andamento della domanda interna di beni e servizi il motivo principale per cui i tassi di crescita siano rimasti, negli anni, così contenuti. Analoghe considerazioni possono essere tratte per quanto riguarda gli “investimenti fissi lordi [1]” delle pubbliche amministrazioni, che fino al 2018 presentano addirittura un andamento calante. Ambedue questi indicatori rilevano gli effetti di lungo periodo delle politiche di austerity e le ristrettezze in cui la finanza pubblica si è trova a dibattersi per le regole europee di pareggio di bilancio. Si può quindi affermare che un ruolo fondamentale per la ripresa italiana, ed in particolare dell’area milanese, è stato giocato dalla domanda di beni dall’estero, com’è testimoniato dalle dinamiche relative alle esportazioni, che presentano tassi di crescita ininterrottamente elevati [2]. La dipendenza dall’estero, però, che in precedenza riguardava principalmente il comparto manifatturiero, negli anni post EXPO 2015 si è trasferita anche ai servizi locali che si sono avvantaggiati, in maniera assai differenziata a seconda delle specializzazioni dei singoli territori, della massiccia presenza turistica estera (nelle sue più ampie accezioni [3]). Per questo motivo, la crisi pandemica per il nostro tessuto produttivo ha generato una serie di impatti e di implicazioni estremamente complesse, che vanno ben al di là delle singole performance settoriali e che, al contrario, si esplicitano su un orizzonte estremamente ampio, interessando la competitività e capacità attrattiva del sistema socio economico locale.
Infatti, la crisi esplosa nel 2020 è caratterizzata da una peculiarità che la differenzia da quelle che abbiamo vissuto in passato, particolarità su cui è opportuno riflettere per poter immaginare il modello di sviluppo economico metropolitano fondamentale per superare le attuali difficoltà. Diversamente si corre il rischio che i mesi futuri del 2021 generino una sorta di “abbaglio”.
Invero, la riconquistata libertà di movimento delle persone farà da catalizzatore per un “rimbalzo” economico, generato dalla ripresa della domanda interna dei servizi (ristorazione, alloggio, commercio al dettaglio) sotto la spinta della euforia da ritorno alla normalità. Domanda che non potrà però rappresentare il modello economico che sosterrà la ripresa nel medio e lungo tempo.
Sotto questo profilo è opportuno osservare come gli ultimi dodici mesi abbiano avuto una duplice valenza rispetto all’economia, quantunque declinata diversamente nei diversi settori produttivi. Infatti, rispetto alle fasi recessive vissute in precedenza, l’anno 2020 si differenzia per aver colpito contemporaneamente tanto la domanda quanto l’offerta di beni e servizi. Ambedue i versanti, infatti, sono stati influenzati in maniera determinante dai vincoli allo svolgimento di molte attività produttive, nonché da quei provvedimenti volti a ridurre quanto più possibile le occasioni di contagio attraverso l’imposizione di forti limitazioni agli spostamenti non direttamente connessi a comprovati motivi di lavoro, salute o necessità.
Dei due ambiti citati, il primo attiene ai consumi, ossia la domanda aggregata, la quale è risultata particolarmente penalizzata sotto una pluralità di punti di vista. Innanzi tutto, sotto questo profilo, un fattore determinante, che è entrato in gioco, è stata la progressiva riduzione della capacità di spesa e del reddito disponibile di una rilevante quota di persone in conseguenza agli effetti che si sono avuti sull’occupazione e sul mercato del lavoro. Da un lato, l’esplosione del ricorso alla cassa integrazione ha gravato sulle entrate e sui bilanci familiari, dal momento che tale istituto, pur concepito per compensare il calo di attività delle imprese (mantenendo in forza il relativo organico anche a fronte di sensibili contrazioni nei livelli di attività), ha comunque comportato una riduzione del salario percepito.
D’altro canto, l’irrigidimento delle dinamiche occupazionali e, in particolare, il crollo delle nuove assunzioni ha determinato un evidente allargamento dell’area del non lavoro. Finora, ciò si è sviluppato soprattutto nella direzione di un incremento della platea degli inattivi, affiancato da un aumento, ad oggi ancora relativamente contenuto, della disoccupazione. Ciò si spiega alla luce del fatto che, specialmente durante il primo lockdown, coloro che sono rimasti senza occupazione hanno materialmente dovuto rinunciare o, in ogni caso, rinviare, posticipandola, la ricerca di un impiego alternativo [4]. La moderata risalita della disoccupazione (rispetto alle proporzioni della crisi), invece, origina dai provvedimenti che hanno introdotto, tra l’altro, il divieto di operare dei licenziamenti, misura che finora ha contribuito ad evitare un’emorragia ben più grave o che, per lo meno, la starebbe dilazionando nel tempo, per cui, attualmente, la disoccupazione viene alimentata soprattutto dalla chiusura dei contratti a termine, non più rinnovati dopo la loro naturale scadenza. Da non sottovalutare sotto questo aspetto è l’effetto di ritardo, misurabile in parecchi mesi, nella ripartenza del mercato del lavoro a fronte della ripresa del ciclo economico espansivo.
In aggiunta a tutto ciò, vi è una serie di fattori subentrati con la pandemia che potrebbero condizionare la domanda di beni e servizi interni, in relazione ai cambiamenti sopraggiunti per quanto riguarda i bisogni e le preferenze sottese alle varie scelte di consumo [5]. A puro titolo esemplificativo, si consideri la maggiore propensione al risparmio, che ha portato a rinviare prudenzialmente talune spese ritenute non prioritarie, nella previsione di dover fronteggiare con una certa probabilità delle situazioni critiche a fronte di un futuro incerto e problematico. Si pensi, poi, alla maggiore attenzione alla cura, anche nel quotidiano, degli aspetti igienico – sanitari, piuttosto che ad altri comportamenti improntati alla cautela (per quanto, alla lunga, si osservino dei comportamenti talora incoerenti in tal senso), che si sono concretizzati nella limitazione della fruizione e della pratica di attività che potrebbero esporre ad un più alto rischio di entrare in contatto con il virus. Inoltre, si sono prodotti mutamenti nelle abitudini di vita che perdureranno, quali lo smart working o l’accresciuto utilizzo, negli acquisti, dei canali di vendita on-line e dei servizi di consegna a domicilio; quest’ultimo mutamento ha già favorito l’emersione di una categoria di lavoratori precedentemente non tutelata da un contratto nazionale. Da ultimo, ha inciso non poco l’impossibilità di acquistare (e di beneficiare di) taluni beni o servizi alla luce delle varie restrizioni, basti solo citare, al proposito, la filiera turistico – ricettiva, la ristorazione e i pubblici esercizi, e talune attività di intrattenimento, di spettacolo e sportive.
Dal lato dell’offerta, questa fase si contraddistingue per un calo diffuso delle principali grandezze indicative del livello di attività del sistema economico, quali le quantità dei beni e servizi prodotte, il fatturato e gli ordinativi. Giusto per dare una misura sintetica ma, al tempo stesso, tangibile di cosa tutto ciò abbia comportato, si pensi al fatto che le stime elaborate dall’Istat [6] fanno emergere, per il 2020, una drastica riduzione del prodotto interno lordo (PIL) nazionale, pari a -8,9% [7].
Tra i numerosi fattori che hanno contribuito a determinare un simile risultato, vi sono sicuramente i vari provvedimenti di chiusura che il Governo si è trovato costretto a mettere in campo per cercare di frenare, o quanto meno rallentare, la diffusione dei contagi.
Queste misure sono, infatti, consistite sostanzialmente nella limitazione allo svolgimento della normale attività produttiva ed hanno avuto degli impatti molto intensi, specie con riferimento ad alcuni comparti, risultati particolarmente penalizzati, nonostante fin da subito sia stata messa in campo una massiccia serie di interventi di sostegno, rivolti a famiglie, lavoratori ed imprese, la cui entità, però, compensa solo parzialmente le perdite decisamente più rilevanti connesse alla gestione dell’emergenza. Un ulteriore elemento da citare per segnalare la peculiarità della attuale crisi pandemica si intreccia con il ruolo frequente di produzione di componentistica per prodotti finiti, dipendente quindi dalla ripresa produttiva dei sistemi economici europei con cui abbiamo maggior interscambio.
La tenuta della struttura produttiva manifatturiera metropolitana, abbiamo osservato, ha potuto essere assicurata sin dai primi segnali di rallentamento facendo leva su strumenti di compensazione economica rodati quali la cassa integrazione. Fatto salvo per alcuni comparti particolarmente esposti al mercato estero, come la moda e il tessile, la manifattura ha quindi sofferto in misura più contenuta dei servizi delle intemperie dell’anno passato. La dipendenza dalla domanda estera ritorna pertanto un tema centrale, visto che tutti i paesi verso cui si rivolge il nostro export hanno sperimentato condizioni analoghe a quelle italiane con corrispondenti cali della domanda di prodotti e servizi.
La pandemia ha, con tutta probabilità segnato un momento di cesura, ed in fieri anche una opportunità per riconsiderare sotto nuova luce gli elementi che hanno decretato il successo di Milano negli ultimi cinque anni.
Come si accennava, il 2020, con l’irrompere della pandemia ha messo in luce l’estrema complessità che caratterizza il “modello Milano”, il quale, nelle sue varie articolazioni, ha risposto in maniera differente ai contraccolpi della crisi.
Sotto questo profilo, occorre considerare la dicotomia ed il rapporto che sussiste tra il capoluogo, da un lato, ed i restanti territori, ad esso esterni, dall’altro. Nel corso del tempo, infatti, Milano città ha assunto una fisionomia economica e produttiva specializzata sulle funzioni terziarie e, al loro interno, sulle attività più avanzate, a contenuto tecnologico e ad intensità di conoscenza. Qui si sono sviluppate anche una serie di relazioni tendenzialmente più orientate sulle cosiddette “reti lunghe”, con una spiccata vocazione internazionale. Ciò ha determinato una forte concentrazione di queste funzioni, a fronte di una maggiore vocazione manifatturiera all’esterno dell’area metropolitana, dove si osservano ancora modelli produttivi radicalmente diversi, incentrati sull’industria e sulla manifattura, nonché su una serie di attività più tradizionali, con una significativa presenza di imprese di piccole e piccolissime dimensioni ed una componente rilevante rappresentata dal comparto artigiano. La diversa configurazione delle attività economiche sul territorio milanese ha, dunque, determinato una risposta assai diversificata (pur nell’ambito di una generalizzata tendenza involutiva), da cui, probabilmente, discenderanno percorsi, traiettorie e prospettive di recupero che si svilupperanno con tempi e modalità altrettanto differenziate. Queste condizioni impongono il duplice tema del rapporto tra il capoluogo e i comuni della città metropolitana, e al contempo del riequilibrio tra i settori economici e le modalità di fare impresa, considerando l’importante contributo all’economia complessiva portato sia delle grandi imprese sia dal tessuto artigiano, come visto, ancora diffuso e vitale.
In relazione alle scelte pubbliche, a puro titolo di esempio si pensi a Milano, ed alla dipendenza dai flussi turistici ed alla forte concentrazione delle funzioni di ufficio in aree specifiche della metropoli. Da questo punto di vista, lo stop del turismo è stato uno shock esterno, mentre le passate scelte urbanistiche che hanno portato alla disposizione dell’abitare e della localizzazione delle funzioni urbane ha determinato uno shock interno, dove intere aree di sviluppo di pregio del capoluogo si sono trovate da un giorno all’altro deserte. Nel corso degli anni la metropoli si è adeguata alle trasformazioni economiche, dall’abbandono, nel secolo scorso, della vocazione industriale a favore del terziario dei servizi avanzati, alla più recente scoperta di una dimensione di polo di attrazione del turismo internazionale, quindi non vi è motivo per cui non possa affrontare il tema e con successo indicare adeguate scelte amministrative e politiche capaci di fare superare anche questa transizione riadattando il presente modello economico, impiegando al meglio le risorse previste nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) [8].
I primi dati disponibili per il 2021 già mostrano i primi segnali dell’effetto “rimbalzo”, di cui si è fatto cenno, la cui effettiva portata andrà, tuttavia, valutata con estrema attenzione anche nel medio termine, soprattutto quando cesseranno gli effetti di talune condizioni di eccezionalità che hanno contenuto la caduta dell’occupazione. A questo riguardo l’elemento che più genera incognite sarà il venir meno del divieto dei licenziamenti introdotto dal legislatore con il Decreto Cura Italia (D.L. n. 18/2020) allo scopo di preservare quanto più possibile, per lo meno nel breve periodo, i posti di lavoro.
La Figura 43 presenta i più recenti dati disponibili [9] relativi degli avviamenti mettendo a confronto i prime tre mesi del 2020 con il 2021. Di questi tre mesi, tuttavia, solo il mese di marzo 2021 è comparabile con mese di marzo 2020 poiché gennaio e febbraio 2020 non sono stati interessati dalle restrizioni covid-19.
A marzo [10] si registra il primo timido segale di crescita: avviamenti +4,1% ed avviati +3,1%.
Da segnalare però come la composizione dei contratti di avviamento tra i due anni sia alquanto differente: calano sensibilmente i contratti di lavoro domestico (-32,5%) mentre sono cresciuti gli avviamenti a tempo determinato stipulati nel mese (+52,8%), così come si presentano in forte ripresa i contratti dello spettacolo ed i tirocini. Le forme contrattuali che impegnano il datore di lavoro per periodi più lunghi, tempo indeterminato (-17,7%) ed apprendistato, presentano (-10,9%) invece entrambe valori negativi.
In aggiunta a ciò, da un punto di vista qualitativo, con la pandemia sono andate affermandosi in maniera decisa anche nuove modalità di svolgere il lavoro, che prima avevano una diffusione alquanto limitata nel Paese, basti solo pensare, al riguardo, al lavoro da remoto, al telelavoro ed allo smart working. L’esperienza di questi mesi ha consentito di capitalizzare queste forme di impiego, che hanno, così, impattato sull’organizzazione interna delle imprese e sulle mansioni, richiedendo un riesame dei processi ed un ripensamento più o meno profondo del modo in cui gestire le diverse attività. Tutto ciò ha introdotto anche un’ulteriore segmentazione all’interno del mercato del lavoro (influenzando, come è stato illustrato, anche gli andamenti settoriali) tra attività che possono essere portate a compimento esclusivamente in presenza ed attività realizzabili da remoto. Inoltre, relativamente a queste ultime, il concetto di un confine “fisico” tra la vita lavorativa e quella privata è divenuto via via meno definito, determinando nuove esigenze, basti pensare alla gestione degli spazi domestici o alle difficoltà connesse alla gestione dei carichi familiari, specialmente in corrispondenza dei periodi di chiusura delle scuole per lo svolgimento dell’attività didattica a distanza.
Figura 43
La pandemia potrebbe avare messo in moto degli agenti di trasformazione sociale ed economica che hanno cambiato il modo di pensare e di agire delle persone e delle imprese. Milano oggi si trova di fronte ad un nuovo salto, già annunciato dall’industria 4.0, ma non pienamente ad ora colto, dove la centralità del patrimonio informativo è diventato la nuova materia prima. Per Milano la nuova partita ha come posta in gioco la transizione dell’area urbana per accogliere le occasioni offerte dal lavoro tecnico-intellettuale, il lavoro professionale, il lavoro con le tecniche digitali, nell’epoca che ha visto la nascita dell’informatica e di Internet, la pandemia ha cambiato le persone e il loro modo di pensare e di agire.
1 Investimenti fissi lordi: sono costituiti dalle acquisizioni (al netto delle cessioni) di capitale fisso effettuate dai produttori residenti a cui si aggiungono gli incrementi di valore dei beni materiali non prodotti. Il capitale fisso consiste di beni materiali e immateriali prodotti destinati ad essere utilizzati nei processi produttivi per un periodo superiore ad un anno – Definizione ISTAT.
2 La variazione dell’export milanese 2018 su 2019 è stata del +4,4%, fonte: Camera di Commercio di Milano.
3 Si pensi, al riguardo, al turismo d’affari.
4 L’effetto scoraggiamento richiamato da diversi studiosi ha accentuato questa dinamica.
5 Cfr. paniere Istat: https://www.istat.it/it/archivio/253180.
6 Istat, PIL e indebitamento AP. Anni 2017-2020, Statistiche Flash, marzo 2021.
7 Si tratta della variazione annua del PIL rispetto al 2019, corretta per gli effetti di calendario.
9 I dati si riferiscono alla estrazione del mese di aprile 2021.
10 Al momento della stesura del testo questo dato è ancora incompleto, mancando parte delle comunicazioni dei rapporti di lavoro interinali che vengono acquisiti attraverso l’interoperabilità dal sistema nazionale.
Data creazione: 06 May 2021